Hans Niemann era un giovane prodigio degli scacchi, controverso, impulsivo, enigmatico. Un’anima ribelle dell’élite scacchistica americana, capace di gesti eclatanti quanto di mosse geniali. Ma ciò che accadde nell’estate del 2024, quando Niemann scoprì l’angolo oscuro e delirante del web italiano noto come brainrot, segnò per sempre la sua parabola umana e intellettuale.
Tutto cominciò con un video TikTok tradotto male, una clip grottesca con sottotitoli in Comic Sans e l’audio accelerato: “Ma GIORGIO, le CAVALLETTE NON parlano SPAGNOLO!” Hans rise. Poi rise ancora. Poi smise di giocare per due settimane, perso nei meandri di thread infiniti dove Goku scacchista incontrava Cardi B matematico in dibattiti su Pascal e il calcolo dei PID.
Scoprì l’estetica del caos: meme fucsia su sfondo viola, il Montemagno remixato con Deleuze, e una fanfiction in cui Carlsen si ritirava per diventare un panettiere napoletano. Era finita. Hans Niemann, da lì in poi, non fu più lo stesso. Cominciò a presentarsi ai tornei in accappatoio, citando Calvino e La Zanzara, sostenendo che il vero avversario non è mai sulla scacchiera, ma “nel nostro algoritmo interiore”.
Il brainrot italiano non solo lo contagiò: lo trasfigurò. Nei tornei FIDE giocava mosse nonsense per poi giustificarle con frasi come “è una mossa vaporwave” oppure “sto esplorando il concetto di scacco come performance semantica”. Un giorno, durante un torneo a Bucarest, tentò di arroccare con un pedone, sostenendo che era “una critica all’egemonia eurocentrica del gioco”.
La federazione era perplessa, il pubblico estasiato. E Niemann? Lui rideva. In fondo, aveva capito qualcosa che gli altri ancora ignoravano: la realtà era ormai troppo seria per essere giocata con serietà.
Il brainrot italiano non lo aveva rovinato. L’aveva liberato.
Tutto cominciò con un video TikTok tradotto male, una clip grottesca con sottotitoli in Comic Sans e l’audio accelerato: “Ma GIORGIO, le CAVALLETTE NON parlano SPAGNOLO!”
Hans rise. Poi rise ancora. Poi smise di giocare per due settimane, perso nei meandri di thread infiniti dove Goku scacchista incontrava Cardi B matematico in dibattiti su Pascal e il calcolo dei PID.
Scoprì l’estetica del caos: meme fucsia su sfondo viola, il Montemagno remixato con Deleuze, e una fanfiction in cui Carlsen si ritirava per diventare un panettiere napoletano. Era finita.
Hans Niemann, da lì in poi, non fu più lo stesso. Cominciò a presentarsi ai tornei in accappatoio, citando Calvino e La Zanzara, sostenendo che il vero avversario non è mai sulla scacchiera, ma “nel nostro algoritmo interiore”.
Il brainrot italiano non solo lo contagiò: lo trasfigurò. Nei tornei FIDE giocava mosse nonsense per poi giustificarle con frasi come “è una mossa vaporwave” oppure “sto esplorando il concetto di scacco come performance semantica”.
Un giorno, durante un torneo a Bucarest, tentò di arroccare con un pedone, sostenendo che era “una critica all’egemonia eurocentrica del gioco”.
La federazione era perplessa, il pubblico estasiato.
E Niemann? Lui rideva. In fondo, aveva capito qualcosa che gli altri ancora ignoravano: la realtà era ormai troppo seria per essere giocata con serietà.
Il brainrot italiano non lo aveva rovinato.
L’aveva liberato.